Prima circolare – Bressanone/Brixen 2024

LI CONVEGNO INTERUNIVERSITARIO
(Bressanone/Brixen, 5-7 luglio 2024)

Care Amiche e Colleghe, Cari Amici e Colleghi,

l’annuale convegno interuniversitario di Bressanone si svolgerà da venerdì 5 luglio (pomeriggio) a domenica 7 luglio (mattina) 2024, presso l’Aula Magna della Casa della Gioventù dell’Università di Padova.

Il Comitato Scientifico Organizzatore, accogliendo una proposta emersa durante la discussione collegiale dello scorso incontro, ha scelto come argomento del prossimo colloquio il tema dell’explicit nei testi letterari, formulando il titolo seguente:

Scrivere la fine: retoriche e poetiche dell’explicit

L’intento del convegno è quello di riprendere e arricchire con prospettive nuove la riflessione sulle tematiche e le questioni relative alla conclusione nei testi letterari, allargandola a un numero di fenomeni e opere il più ampio possibile, sulla scia di ricerche già effettuate specialmente dalla critica anglo-americana e francese.

Nelle partizioni di un’opera letteraria la conclusione, nelle sue varie definizioni di fine, explicit, epilogo ecc., assume un valore di decisiva importanza in quanto veicolo di immagini e insegnamenti, di convinzioni e dissensi che il lettore porta con sé nel separarsi dal testo. Nel finale il lettore può verificare se lo scrittore e il testo hanno mantenuto le promesse fatte durante la narrazione, se essa è conforme alle aspettative, se soddisfa le attese oppure le lascia inevase e deluse. Le strategie, i modi, le tecniche del finale – quell’insieme di pratiche e dispositivi che si potrebbero definire come “arte della conclusione” – sono stati oggetto di importanti considerazioni e di suggerimenti normo-prescrittivi nei trattati retorici e poetici dell’antichità (da Aristotele a Cicerone, da Orazio a Quintiliano e altri), spesso messi in relazione con le poetiche dell’esordio, per una fisiologica omologia retorico-stilistica che associa le zone estreme del testo, promuovendo a volte effetti di circolarità tramite riprese e collegamenti capaci di tendere fili passanti tra la testa e la coda dell’opera. Questa precettistica viene ripresa e riformulata nei trattati medievali con l’obiettivo di suggerire un’ideale proporzione ed equilibrio tra il principio e la fine: «ut bene incepta fine debito concludamur», per il cui raggiungimento sono indicati tre modi di conclusione: «vel a corpore materiae, vel a proverbio, vel ab exemplo» (Faral 1923). E tuttavia, come osserva Curtius 2022, diversamente dalla topica dell’esordio, la conclusione aveva minori possibilità di sfruttare le norme indicate dalla retorica classica per il discorso oratorio. L’attenzione per l’epilogo sembra dunque inferiore rispetto a quella riservata al prologo. Comunque sia, nelle artes e poetriae medievali di Matteo di Vendôme, Goffredo di Vinsauf e Giovanni di Garlandia, come anche nelle affermazioni di molti scrittori di opere in volgare, si registra un’attenzione non secondaria per le dinamiche e le topiche della conclusione.

D’altra parte, anche se spesso sia gli scrittori in senso stretto che i teorizzatori si richiamano al buon principio come a un presupposto per una buona fine, di fatto non sempre questo si avvera concretamente. Non sono rari infatti i testi “abbandonati”, che, pur avendo beneficiato di un buon avvio, restano privi della conclusione del loro iniziatore o sono portati a termine da uno scrittore diverso dal primo (Roman de la rose) essendo rimasti incompleti, senza fine, per svariate ragioni quali la morte dell’autore, o la decisione magari non esplicitata dall’interessato di non portare a compimento il proprio lavoro. Il fenomeno interessa opere e autori notevoli, sovente di primissimo piano. Si pensi ai romanzi “interrotti” di Chrétien de Troyes (l’inconcluso Chevalier de la charrette, completato da Godefroi de Leigni per “delega” dell’autore, e il Conte du graal, la cui incompiutezza, sospesa sulla più fascinosa e attrattiva delle questes arturiane, fomenta da subito l’intraprendenza inventiva dei continuatori); per l’ambito italiano, si consideri il problema del “non ultimato” riguardante le opere di Dante o di Petrarca, e si ponga mente a scrittori prolifici e sempre sospinti verso nuovi progetti come Vincenzo Monti, figura quasi emblematica del non finito per le molte opere accantonate e lasciate incompiute.

Ma, al di là di questi cantieri dismessi, la maggior parte delle opere letterarie è provvista di explicit formulato secondo una più o meno ampia casistica argomentativa, una ricca e variegata tipologia di modi conclusivi dei quali il convegno si occuperà, mirando a definire delle categorie condivise e comuni a scrittori diversi o mettendo in rilievo le scelte originali e gli scarti innovativi di singoli autori.

Nel corso del tempo si sono affinate e approfondite le tecniche di analisi e le ricerche concernenti il modo di concludere una creazione letteraria, e un’attenzione speciale è stata dedicata al ruolo dello scrittore e del lettore nella conclusione, al confine tra il finale di un testo e la fine vera propria, dove risuona l’ultima parola del dettato. Ne sono scaturiti un dibattito e una serie di riflessioni stimolanti e feconde. Per il medioevo, ad esempio sono stati esplorati e solcati vari settori (cfr. e.r.l.i.m.a. 1998/1999) che hanno messo in risalto attraverso l’esame tematico e formale l’ampia varietà di soluzioni conclusive messe in atto nei testi e, tra le molte indagini, una cura significativa è stata rivolta allo studio del rapporto tra fine del racconto e romanzo arturiano (Baumgartner 1999).

Ancora a titolo di esempio, senza dimenticare Kermode 2020 che si occupa dell’idea di “fine” da un’ottica a dominante antropologico-culturale anche relativamente alla conclusione di molti romanzi ottocenteschi, si deve ricordare un dossier di voci bibliografiche importanti e articolate, e di vere e proprie teorizzazioni e speculazioni, che sono state rivolte alla narrativa moderna a partire dalle pioneristiche prospezioni di Herrnstein Smith 1968 per arrivare a studi organici e fondativi, come quelli di Hamon 1975, Kotin Mortimer 1985 e Larroux 1995. Monografie di vasto impianto e di notevole ambizione sono state prodotte anche in ambito di cultura ispanica da Kunz 1997 e, in Italia, da Izzo 2013, volume ricco e denso di prospettive, di proposte e di analisi. Questi studi hanno definito le implicazioni, i legami e i rapporti dei modi e delle problematiche della conclusione rispetto ai canoni della retorica antica, agli aspetti narratologici e stilistici.

Viene ad esempio stabilito un rapporto tra racconto e tempo della conclusione, tra tempo narrativo o anche meteorologico, e tempo dei personaggi, con una specie di finis a tempore, rintracciabile in molti testi medievali, ma già sperimentata nel De oratore ciceroniano, e anche nella letteratura moderna. Tra i classici italiani che sfruttano per sintonia o per antifrasi il rapporto tra la fine della storia e la scansione “circadiana” del fondale cronologico, si possono citare alla rinfusa alcuni esempi di immediata evidenza: I Malavoglia di Verga chiudono su ’Ntoni che si allontana da casa sul far del giorno, mentre il paese prende timidamente vita e il mare comincia a rischiararsi; Malombra di Fogazzaro finisce con immagini notturne e il primo apparire dell’alba; Il deserto dei Tartari di Buzzati termina al sopraggiungere del buio, facendo coincidere la fine del romanzo con quella della “giornata” del protagonista.

Molto diversi da queste “conclusioni di atmosfera”, che sfruttano il cronotopo della fine contaminandone le diverse accezioni con esiti di potenziamento simbolico e caricamento sentimentale, sono i finali “retorici”, contraddistinti dal ricorso a un proverbio o a una massima, portatori della morale dell’opera. È una specie di finis a sententia, una fine aforistico-esemplare, parallela magari ad un inizio sentenzioso e posta a suggello del testo. Si potrebbe associare a questo tipo di conclusione il finale con una o più citazioni esemplari – una conclusio cum auctoritate –, giocate come epigrafi certificanti a sostegno di quanto affermato o narrato in precedenza (cfr. ad esempio la serie di estratti posti a esergo nel finale di The Waste Land di T.S. Eliot o l’enigmatica citazione autoriale conclusiva del Nome della rosa di Umberto Eco). In qualche caso l’autore si avvale dell’artificio di farsi “prestare” le parole da uno o più personaggi. Paradigmatica per un compimento contenente la morale del racconto e coinvolgente personaggi e autore, è la conclusione – «il sugo di tutta la storia» – dei Promessi sposi manzoniani con le affermazioni di Renzo e Lucia, convinti che: «i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore».

Tra i modi “piani” di terminare il racconto vanno ricordate soprattutto le chiuse “definitive”, che completano opere a lieto fine nelle quali tutto si compone in modo positivo e armonioso, con piena soddisfazione di autore, personaggi del racconto e lettore. A questi finali conciliatori e rassicuranti si possono accostare i finali “attesi”, che si riannodano al principio con un andamento anulare di saturazione delle promesse: si pensi, p. es., alle conclusioni lineari che confermano le attese formulate al principio, come ad esempio quella della Gerusalemme liberata, allorché Goffredo di Buglione, conquistata la città, «scioglie il voto». Queste opere a compimento “definito” sono di frequente connotate da eventi finali emblematici o da sequenze potentemente drammatizzate e survoltate (i funerali di Ettore nell’Iliade, il duello tra Enea e Turno nell’Eneide, quello tra Ruggiero e Rodomonte nell’Orlando Furioso, la morte del protagonista o il suo ritiro come nella grande scena conclusiva della Mort le roi Artu o come nel Don Chisciotte, dove con ironica accentuazione è richiesta l’attestazione di morte del protagonista per evitare la continuazione delle sue avventure da parte di altri) o da scene sfarzose di nozze o banchetti (da Chrétien de Troyes a Emma di Jane Austen). E nella prospettiva di una tranquilla “resa dei conti” tra autore e lettore si inscrive anche l’explicit riassuntivo, caro agli scrittori che tirano le fila del récit e si congedano “pacificamente” dal lettore, con un sommario nel quale si ricapitolano a mo’ di consuntivo moralizzato le vicende fondamentali dell’intreccio.

Rifacendosi indicativamente a questi presupposti teorici e bibliografici ma con la consapevolezza che molto altro è stato scritto e molto c’è da esplorare, il convegno si propone di estendere l’analisi a un numero di testi e problemi il più vasto possibile per indagare il funzionamento della conclusione, della sua disposizione e organizzazione nei testi letterari in versi e in prosa, nell’antichità come nel medioevo, nell’età moderna e in quella contemporanea, nel suo variabile trattamento a seconda degli scrittori e dei fenomeni e periodi letterari. Si sollecitano, in particolare, considerazioni teoriche sul compimento di un’opera ma anche letture “davvicino” e analisi ancorate a singoli autori o a gruppi di autori, purché la restrizione di campo regali un acquisto di profondità all’indagine, propiziandone le valenze teorico-metodologiche e facendone un caso di studio passibile di generalizzazioni e di considerazioni d’assieme di interesse estetologico, culturale, retorico-stilistico, ecc. L’inchiesta, cronologicamente incurvata lungo una parabola che muove dall’antichità per giungere a contesti duemilleschi, andrà possibilmente dilatata a tutto lo spazio della letteratura occidentale, con campiture estese dal dominio romanzo ai panorami germanico e slavo, non senza possibili sfondamenti nella direzione delle letterature extra-europee.

Nella molteplicità di curvature e di tagli offerti dall’argomento di studio prescelto per l’edizione 2024 del nostro Convegno, si possono riconoscere tre poli tematici di particolare forza attrattiva.

(1) C’è intanto la fine di un testo intesa in senso proprio e concreto, come l’indicazione del suo limite estremo, da cui proviene anche la formula explicit, che è infatti innanzitutto quella con cui è segnalata la soglia ultima di un’opera entro le pratiche e le convenzioni della trascrizione e della diffusione manoscritta; un primo ambito di ricerca, dunque, tra filologia materiale, codicologia e “narratologia” (intesa lato sensu), riguarda la casistica e la morfologia di questi territori post-liminari, analizzabili nelle loro articolazioni testuali (figure terminali, stereotipi di congedo, cliché di commiato, firme, sphraghís, ecc.) e nelle sue differenziazioni in base ai generi, alle tradizioni linguistico-culturali, ai supporti, e all’evoluzione storica di tutti questi elementi visti come dati fortemente interrelati e di marcata vocazione intersezionale. Con riferimento alle connotazioni di genere saranno anche da esaminare le modalità di chiusura dei testi poetici, visti nella loro specificità (cfr. Benzoni 2003-2004), o nel paragone con le prose.

In termini paleografici, così come entro il quadro della bibliografia testuale, si tratterà soprattutto di indagare le strategie e le forme che presiedono alla gestione di questo spazio confinario, frontiera postrema e Finis terrae del libro fisico, luogo in cui la scrittura si sospende sul bianco residuo dell’ultima pagina, ma anche sulla dimensione ulteriore aggettante sull’oltre, ovvero sul silenzio e, in fondo, sull’eco che il testo lascia oltre sé stesso, dopo la sua fine. E in tale cornice di riferimento non andrà trascurata la fenomenologia paratestuale, che tende a costellare nelle zone ultime dell’opera una nebulosa di produzioni verbali aggiuntive e complementari con funzione di corollario e di sussidio, ma talora anche di correctio e di rettifica prospettica: la tavola delle materie, la postfazione, la postilla addizionale, il colofone, il poscritto di natura informativa, la nota di soscrizione di mano del copista, e via elencando.

Va da sé che nella tavolozza degli spunti di ricerca e delle direttrici d’indagine percorribili rientra anche la questione sempreverde delle zone estreme e liminari del testo come luogo di potenziamento semantico e di intensificazione emozionale. Al termine dell’opera, l’istanza autoriale tende ad accamparsi con forza prendendosi il privilegio dell’ultima parola. Di più. La fine, proprio come l’inizio, aspira alla memorabilità e si vuole di norma incisa, scolpita, caricata di pathos. Questo fa sì che l’explicit sia tipicamente una sede molto esposta e retoricamente lavorata, spesso di forte concentrazione formulistica, cui vengono affidate funzioni di ricapitolazione sintetica (il “sugo della storia”), di illustrazione etico-didattica e gnomico-esemplare (la “morale” del racconto), di raddensamento sentenzioso e di esposizione programmatica, di sedimentazione paremiologica e di coagulo topico, di mozione degli affetti, ecc. Il finale tende comunque a segnare uno stacco da quanto precede, accelerando o diminuendo, mediante smorzature o – più di frequente – attraverso effetti di innalzamento tonale. E a questa icasticità dell’epilogo si possono ricondurre la tecnica e la pratica del cursus come ricerca di un andamento ritmico specificamente orientato alla confezione di una clausola armoniosa, efficace e intonata al senso del periodo di cui costituisce il sigillo.

La zona conclusiva del libro – manoscritto o a stampa – potrà essere rivisitata anche in un’angolatura che metta in primo piano le soluzioni di pertinenza grafico-visiva, i complementi illustrativi di natura iconica, gli spunti decorativi e le opzioni specifiche di mise en page. Si pensi a certe soluzioni tipografiche in cui la scrittura desinente si contrae nell’imminenza della fine, digradando progressivamente e prendendo la forma di un cuneo o di un trapezio rovesciato. In casi consimili, che potremmo definire “explicit figurati”, la porzione conclusiva del testo – il suo fondo – prende l’aspetto di una coda, significando con la sua rastremazione scalare il senso di una “cosa” che si spegne, aprendosi eventualmente a un “dopo”, ovvero a un post-testo di statuto appendicolare. E qui le poetiche tipografiche della fine, con il loro bisogno di chiusura enfatizzata e ostentata, si fanno marcatamente iconiche ed esibiscono la loro piccola monumentalità, contrastando con modi di scrittura più aperta e liquida, refrattaria all’istanza conclusiva.

(2) Il secondo ambito, che ha evidentemente elementi di contiguità e di sovrapposizione con il precedente ma anche una vita propria, è quello che riguarda la fine declinata come finale di un testo – narrativo teatrale poetico melodrammatico filmico. Qui la gamma dei possibili approcci si fa davvero amplissima: i finali si differenziano infatti naturalmente per il loro contenuto e il loro significato, per esempio nella tradizione narrativa (happy ending, finale aperto, “a sorpresa”, “a precipizio”, ex abrupto, interrotto, sospeso, enigmatico, circolare, ecc.), in una differenziata tipologia che si incrocia (ma non si risolve) con quella dei diversi generi e sottogeneri letterari. È stato p.es. osservato che le forme brevi – racconto novella short – sono sovente componimenti a culminazione conclusiva, perché tendono fisiologicamente a caricare il finale facendolo detonare in una pointe con funzione effettistica di sorpresa o ribaltamento, talvolta con svelamenti e rivelazioni decisive che modificano in modo sostanziale l’interpretazione del pregresso, mediante un impetuoso movimento rivolto all’indietro. Per contro, i finali dei testi lunghi sembrano predisposti ai registri maestosi, al largo, all’adagio, con esiti di rallentamento e di rinforzo patetico. Ma i finali assumono talora anche una specifica forma: si pensi, solo per fare un esempio, alla costituzione peculiare della tornada e dell’envoi nelle canzoni in lingua d’oc e d’oïl (e in parte anche ai congedi e invii delle canzoni in lingua di ), in cui queste forme acquisiscono anche un certo grado di autonomia e di intercambiabilità, se accade che possano essere modificate e sostituite in caso di reimpiego del medesimo testo entro nuovi contesti e in diverse occasioni, così come d’altronde sono soggette alle contingenze degli usi e riusi sociali – e delle relazioni testo-mondo – anche le stanze finali di alcuni cantari in ottava rima del XIV secolo. O si pensi anche, nel teatro, all’«invenzione dell’epilogo come drammaturgia del finale, da attribuirsi alla Signorina Julie di Strindberg» (Alfonzetti 2022), da mettersi in relazione con la sostituzione dell’atto unico alla tradizionale articolazione aristotelica, e subito tematizzato da Pirandello (L’epilogo, 1898). Luogo di ridefinizione, trasformazione e adattamento, l’explicit non cessa di ricordarci che il testo, prima che un oggetto, è una relazione.

Nell’ambito dello studio sulle forme dell’epilogo ci si potrà focalizzare, se non altro contrastivamente, anche sui finali parziali, relativi cioè alle porzioni in cui un testo è articolato, con tutto ciò che ne consegue in termini di legami e strategie di sospensione e fidelizzazione (“lascia e prendi”, cliffhanger, ecc.). Questa prospettiva riguarda statutariamente il feuilleton e i modi della serialità, che enfatizzano i meccanismi della segmentazione episodica realizzando aggregati macro-testuali composti di parti staccate, ma risulta applicabile anche ad opere di vaste proporzioni entro le quali siano riconoscibili e funzionalmente operanti i tagli e le sagomature delle partizioni interne.

Alcuni degli esempi succitati immettono anche nel dominio, interessante e variegato, dei finali multipli, che possono essere tali per ragioni di varianza d’autore, cioè di una pluralità di finali in quanto riscritti, intesi però di volta in volta come singoli (di cui sono piene la letteratura, l’opera lirica e il cinema), e/o di tradizione testuale, cioè incerti per ragioni filologiche (come il Don Giovanni di Mozart), che possono però avere a che fare con l’instabilità connaturata ad alcuni generi popolari, come la fiaba. E qui occorrerebbe rammentare che il folklore vive di costanti – archetipiche nell’ordine del simbolico e formulari sul piano dell’elocutio –, ma soprattutto di varianti di esecuzione, col che si ritorna anche al ruolo dell’occasione e della congiuntura nella rimodulazione del finale, anche come strategia di adeguamento “ambientale” al contesto performativo di ricezione. Ma i finali possono essere plurimi anche in quanto così appositamente concepiti, quanto meno come risultanze inevitabilmente divaricate di storie che si biforcano o si moltiplicano, ramificandosi a cespuglio: casi del genere sono reperibili in scrittori legati alle sperimentazioni formali di epoca strutturalista e alle poetiche avanguardistiche che valorizzano la letteratura come spazio del potenziale, secondo logiche di natura combinatoria votate all’esaurimento delle permutazioni possibili, anche con intonazioni ludiche di divertissement. Si pensi, per restringersi a uno specimen eloquente – e di livello superlativo – alle soluzioni esperite da Calvino in Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979), forse non a caso riecheggiate negli anni ’80 nel cinema (Destino cieco, Kieslowski, 1981, con cui è apparentato Sliding doors, Howitt, 1998; Signori, il delitto è servito, Lynn, 1985) e nei fumetti (Concina-Cavazzano in Topolino e il segreto del castello, n. 1565, 1985; Silvestri in una storia di Lupo Alberto, 1988: cfr. Garzia 2020). Tuttavia, a ben vedere, si potrebbe dire che essi hanno degli insospettabili antecedenti embrionali nei casi in cui due possibili ipotesi di finale siano esposte in successione in un unico testo (come fa Leopardi nel Dialogo della natura e di un islandese).

Ancora diversi, naturalmente, i casi in cui la critica ha parlato di “doppio finale” nel senso di diverse conclusioni per due (o più) filoni narrativi di un testo (per esempio il Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare e L’éducation sentimentale di Flaubert, ma gli esempi si possono moltiplicare), mentre è semplicemente sterminata la categoria delle opere “a coda mozza”, che si trovano a non avere il finale in quanto rimaste incompiute, dal Convivio alla Cognizione del dolore, dal Partigiano Johnny a Petrolio (per il solo ambito italiano), sebbene al suo interno si possa e debba ragionare sul sottoinsieme per il quale è possibile applicare la categoria critica del «non finito» o addirittura dell’«infinitezza» (Dolfi 2015), dove l’incompletezza può rappresentare una scelta estetica deliberatamente perseguita e non una carenza fortuita riconducibile a vicende biografiche dell’autore o ad accidenti di tradizione manoscritta.

(3) Un terzo filone percorribile della palette tematica congressuale è quello relativo a opere in cui il finale (e il suo problema) diviene argomento di riflessione esplicita, in un ragionamento di secondo grado che enfatizza gli aspetti progettuali e costruttivi del testo in rapporto ai processi di ricezione e di semiosi: si tratterà in questo caso di verificare testi dove sono fortemente presenti componenti metalinguistiche e metaletterarie, qualora ci si voglia limitare a focalizzare il tema nell’accezione ristretta di finale di un’opera; se, invece, si volesse estendere la ricognizione alle opere che hanno per oggetto la nozione di fine non semplicemente di un’opera, ma della vita – o del mondo o del tempo o di un’era –, l’ambito si allargherebbe a dismisura e forse in maniera tale da offrire materiale per un altro convegno (anche se l’ipotesi di far dialogare il finale con la fine, per quanto arrischiata e sdrucciolevole, non è priva di elementi di fascino).

Seguendo la consuetudine consolidata dei nostri incontri, i relatori potranno affrontare nei modi più consoni alla loro sensibilità ed esperienza gli spunti tematici suggeriti. Sarà sulla base dei loro interventi che si assesteranno la forma e il contenuto del convegno. Per assicurare una più completa copertura dei vari ambiti e settori tematici e per favorire un’equilibrata ripartizione delle comunicazioni lungo l’amplissima campata diacronica su cui si inarca il tema del Convegno, il Comitato Scientifico Organizzatore ha previsto la possibilità di inserire alcune relazioni su invito.

Resta peraltro inteso che, a fronte di un numero di proposte troppo elevato, sarà effettuata una selezione sulla base del criterio di congruità con l’argomento e l’impostazione del colloquio. Gli interessati saranno ovviamente avvertiti in tempi brevi dei risultati della cernita.

Le proposte di relazione dovranno pervenire all’indirizzo di posta elettronica del Circolo (circolo.filologico@unipd.it) entro il 15 aprile corredate da un titolo, un breve riassunto (tra 1000 e 2000 battute, spazi inclusi) e, per chi partecipa per la prima volta, da una sintetica presentazione personale (curriculum, affiliazione accademica, salienze del portfolio bibliografico).

Si ricorda che la durata degli interventi non dovrà superare il limite massimo di venticinque minuti.

Le informazioni riguardanti le modalità d’iscrizione al Convegno e gli aspetti pratici, unitamente al programma provvisorio, saranno comunicati, more solito, con una seconda circolare.

Con i più cordiali saluti

Padova, 15 febbraio 2024

Per il Comitato Scientifico Organizzatore

Gianfelice Peron, Attilio Motta, Alvaro Barbieri

Bibliografia minima

  • Alfonzetti 2022 = Beatrice A., Pirandello. L’impossibile finale, Venezia, Marsilio, 2022
  • Alfonzetti, Ferroni 2003 = Beatrice A., Giulio F., I finali. Letteratura e teatro, Roma, Bulzoni, 2003
  • Baldacci, Brysiak, Skocki 2020 = Il futuro della fine. Rappresentazioni dell’apocalisse nella letteratura italiana dal Novecento a oggi, a cura di Alessandro B., Anna Malgorzata B., Tomasz S., Berna, Peter Lang, 2020
  • Baumgartner 1999 = Emmanuèle B., Fin du récit et roman arthurien, in Il tempo, i tempi. Omaggio a Lorenzo Renzi, Padova, Esedra, 1999, pp. 25-36
  • Benzoni 2003/2004 = Pietro B., Chiuse poetiche e senso della fine. Spunti per una tipologia, “Quaderns d’Italià”, 8/9, 2003-2004, pp. 223-248
  • Curtius 2022 = Ernst Robert C., “Topica della conclusione”, in Letteratura Europea e Medioevo Latino, a c. di R. Antonelli, Macerata, Quodlibet, 2022
  • Dolfi 2015 = Non finito, opera interrotta e modernità, a cura di Anna D., Firenze, Firenze University Press, 2015
  • e.r.l.i.m.a. 1998/1999 = Équipe de recherche sur la littérature d’imagination au Moyen-Âge, Clore le récit: recherches sur les dénouements romanesques, I et II, «Prisma», 28-29, Poitiers, Université de Poitiers, 1998/2, 1999/1.
  • Faral 1923 = Edmond F., Les arts poétiques du XIIe et XIIIe siècle en France, Paris, Champion, 1923
  • Garzia 2020 = Mario G., Back to the 80s. L’immaginario degli anni Ottanta nell’era digitale, Milano, Meltemi, 2020
  • Genette 1989 = Gérard G., Soglie. I dintorni del testo, Torino, Einaudi, 1989
  • Hamon 1975 = Philippe H., Clausules, «Poétique», 24, 1975, pp. 495-526
  • Herrnstein Smith 1968 = Barbara H. S., Poetic Closure. A Study of How Poems End, Chicago, The University of Chicago Press, 1968
  • Izzo 2013 = Annalisa I., Telos. Il finale nel romanzo dell’Ottocento, Napoli, Liguori, 2013
  • Kermode 2020 = Frank K., Il senso della fine. Studi sulla teoria del romanzo, con un saggio di D. Giglioli, Milano, Il Saggiatore, 2020
  • Kotin Mortimer 1985 = Armine K. M., La clôture narrative, Paris, José Corti, 1985
  • Kunz 1997 = Marco K., El final de la novela. Teoría, técnica y análisis del cierre en la literatura moderna en lengua española, Madrid, Gredos, 1997
  • Larroux 1995 = Guy L., Le Mot de la fin, Paris, Nathan, 1995
  • Traversetti 2004 = Bruno T., Explicit: l’immaginario romanzesco e le forme del finale, Cosenza, Pellegrini, 2004